El Salvador, el pulgarcito de América
Situato nell’America centrale, El Salvador confina con Guatemala e Honduras a nord, con Honduras a est, mentre a sud e a ovest è bagnato dall’oceano Pacifico. A sud-est è separato dal Nicaragua dal golfo di Fonseca.
L’economia si basa prevalentemente su una agricoltura di piantagione: caffè, cotone, canna da zucchero.
L’Olmec, una scultura di pietra che rappresenta un gigante, ritrovata nei pressi di Chalchuapa, nella parte occidentale del Paese, testimonia la presenza di insediamenti nella regione almeno fin dal 2000 a.C.
I resti delle piramidi maya a Tazumal e San Andrés dimostrano invece che questo popolo abitò la parte occidentale del Paese per un periodo superiore ai 1000 anni. Tra i popoli che si insediarono nella parte orientale di El Salvador figurano i Chorti, i Lenca e i Pok’omame.
Nel XVI secolo, all’arrivo degli spagnoli, il Paese era dominato dai Pipil, un popolo che discendeva da due tribù messicane di lingua nahua, i toltechi e gli atzechi. È probabile che i Pipil siano giunti in Salvador nell’XI secolo, dopo il crollo della dinastia maya.
Questa tribù possedeva una cultura simile a quella atzeca, ma con pesanti influenze maya: la loro economia si basava sulla coltivazione del granoturco e la loro complessa realtà culturale comprendeva attività quali la scrittura in geroglifici, l’astronomia e le scienze matematiche.
Con l’arrivo nella regione, nel 1523, di Pedro De Alvarado, luogotenente di Hernán Cortés, uno dei condottieri che guida i conquistatori spagnoli, la storia di El Salvador subisce un grande cambiamento.
Gli indios inizialmente accolgono con cordialità i nuovi arrivati, ma ben presto le violenze gratuite degli spagnoli portano ad una guerra, che dura dodici anni e si conclude con la resa delle popolazioni indigene, che vengono ridotte in schiavitù e costrette a lavorare per i nuovi padroni nelle piantagioni di caffè, cotone, cacao, mais.
Posto sotto il dominio spagnolo e amministrativamente dipendente dalla capitaneria del Guatemala, agli inizi dell’Ottocento El Salvador vede svilupparsi i primi moti patriottici.
L’anno seguente, l’invasione della Spagna da parte di Napoleone incoraggiò le spinte riformiste: El Salvador ottiene l’indipendenza nel 1821.
Tuttavia ciò non porta ad alcun mutamento nell’amministrazione delle terre coltivabili e nel 1833 gli indios, capeggiati da Anastasio Aquino, organizzano una rivolta. Nel 1841, in seguito al dissolvimento della Confederazione delle Province Unite dell’America Centrale, che comprendeva El Salvador, Costa Rica, Guatemala, Honduras e Nicaragua, El Salvador diviene una nazione sovrana e indipendente.
Nella seconda metà del XIX secolo, le tinture sintetiche mettono a dura prova le coltivazioni tradizionali e il caffè diviene la produzione più redditizia per l’economia nazionale. Si costituisce così la borghesia cafetalera: agli inizi del XX secolo il 95% delle entrate del Paese proviene dalle esportazioni di caffè, ma soltanto il 2% della popolazione beneficia di questi guadagni.
Il potere e la ricchezza si concentrano così nelle mani di pochissime famiglie, che possiedono vastissimi latifondi. Sebbene poco costanti, si hanno le prime iniziative di protesta organizzate dalle classi povere, che costituiscono la grande maggioranza della popolazione, volte ad eliminare le ingiustizie sociali ed economiche.
La crisi economica del 1929 mette in ginocchio anche El Salvador: il caffè, che costituisce di fatto l’unica risorsa per il Paese, non ha più mercato e in buona parte non viene nemmeno raccolto.
Agli inizi degli anni Trenta, il maggiore Harris, addetto militare all’ambasciata degli Stati Uniti, scrive: «Ciò che si nota innanzitutto a San Salvador sono le numerose limousines di lusso.[…]. Accanto a queste vetture da milionari e ai carri trainati da buoi, condotti da uomini scalzi, sembra non esistere nient’altro. Tra gli immensamente ricchi e gli immensamente poveri non esiste classe intermedia».
Nel 1931 con un colpo di Stato (golpe) il generale Hernández-Martinez, sostenuto dall’oligarchia, depone il presidente Arturo Araujo, prende il potere e reprime con il pugno di ferro le rivolte popolari, come quella di indios e di contadini che, tra il 21 e il 22 gennaio 1932, viene guidata da Augustín Farabundo Martí, uno dei fondatori del Partito Comunista del Salvador. Lo stesso Martí viene arrestato e fucilato con tutto il comitato centrale del suo partito.
Secondo i calcoli di vari storici, le vittime della repressione del 1932 oscillano tra un minimo di 12 mila e un massimo di 32 mila. Questo massacro verrà ricordato come la matanza de los comunistas. Rifiutando gli aiuti offerti da Stati Uniti e da Gran Bretagna, il generale Hernández telegrafa: «Mentre salutiamo gli onorevoli comandanti, dichiariamo situazione assolutamente sotto controllo.[…].
Pace est ristabilita nel Salvador. Offensiva comunista distrutta e suoi formidabili nuclei dispersi». Il nuovo dittatore, che viene quasi subito riconosciuto dai governi britannico e tedesco, instaura un regime destinato a durare fino al 1944. Il riconoscimento degli Stati Uniti di Franklin D. Roosevelt arriva nel 1934.
Hanno scritto due studiosi: «Il 1932 divide la storia del Salvador, un po’ come “prima” e “dopo” Cristo: è A.M., anno militaris, l’anno dei militari. […]. Credo che il dramma del 1932 abbia lo stesso significato per il Salvador che la barbarie nazista per l’Europa o quella del Vietnam per gli Usa». Da questo momento in Salvador comandano i generali e El Salvador diviene una “repubblica militare”.
Fino al 1984 non vi saranno più elezioni libere e i presidenti saranno sempre espressione delle forze armate. In un contesto di partiti deboli e corporazioni forti, i militari, al servizio dell’oligarchia economica, controllano la nazione e i suoi apparati.
L’esercito diventa il protagonista della vita politica, economica e istituzionale del Paese, in stretto rapporto con le forze oligarchiche. Nel Salvador, nazione cattolica perfino nel nome, i militari si presentano come i “crociati della cristianità”, fedeli alleati dell’Occidente nella lotta contro il comunismo.
Nel secondo dopoguerra tutta l’area dell’America Latina passa, in campo economico, dalla sfera d’influenza inglese a quella statunitense. Dopo la vittoriosa rivoluzione cubana del 1959, che porta al potere Fidel Castro e pone fine alla dittatura di Batista, nei vari Paesi dell’America centrale e meridionale il malcontento e la protesta, per le marcate disuguaglianze sociali e per le diffuse situazioni di ingiustizia, iniziano a farsi sentire.
In un tale contesto le forze armate assumono una presenza ancora più significativa nella vita politica, con lo scopo di reprimere sul nascere ogni tentativo di modificare l’assetto politico e sociale.
Nel 1964 in Brasile un golpe porta al potere i militari e questo esempio di governo autoritario e repressivo caratterizzerà per i due decenni successivi la maggior parte dei Paesi latinoamericani.
L’11 settembre 1973 un colpo di Stato, operato dal generale Augusto Pinochet, porta alla guida del Paese i militari anche in Cile, dove dal settembre 1970 governava la coalizione di sinistra guidata da Salvador Allende, che aveva regolarmente vinto le elezioni; centinaia sono le vittime, migliaia gli arresti e lo stesso Allende è ucciso.
Nel 1976 tocca all’Argentina, dove i militari, sotto la guida del generale Jorge Videla, oltre a prendere il potere, fanno sparire migliaia di oppositori (desaparecidos), di cui non si saprà più nulla.
Tutti questi golpe, caratterizzati dall’uso sistematico della tortura e da una spietata politica di repressione poliziesca, avvengono con il sostegno degli Stati Uniti, attuato tramite l’intervento dei servizi segreti (la CIA), che non vogliono la realizzazione di una seconda situazione cubana sulla porta di casa.
Tra gli anni Sessanta e Settanta, El Salvador dal punto di vista economico sta vivendo un certo sviluppo. Infatti dal 1960 gli indici economici segnalano un costante miglioramento della situazione, diversamente da altri Paesi del Centro e del Sud America ancora attanagliati dal sottosviluppo: fra il 1960 e il 1968 in Salvador vi sono tassi medi annui di crescita del 6,2%, mentre per gli anni seguenti e fino al 1979 il tasso è del 4,7%.
Ci si trova così di fronte non a un Paese povero, sottosviluppato, privo di ricchezze, ma a un Paese dove l’utilizzo delle risorse e dei proventi della crescita è assolutamente squilibrato nella loro distribuzione e ciò determina profonde disuguaglianze sociali.
Le intensive e redditizie colture del cotone e della canna da zucchero se da un lato fanno la fortuna delle grandi multinazionali e dell’aristocrazia, dall’altro provocano la crisi del piccolo allevamento, dell’agricoltura familiare e di sussistenza.
Si moltiplicano così le famiglie contadine senza terra e aumenta il numero dei braccianti impiegati solo per alcune settimane nel corso dell’anno.
A un governo militare, espressione delle forze oligarchiche che possiedono gran parte della terra e delle ricchezze, si contrappongono alcune forze politiche democratiche che nascono fra il 1964 e il 1966 e che chiedono maggiore libertà e giustizia sociale: il “Partito Demócrata-Cristiano”, l’ “Unión Democrática Nacional” (comunista) e il “Movimento Revolucionario” (socialdemocratico).
Nascono anche, soprattutto tra i contadini, alcune organizzazioni popolari e sindacali, come la “Federazione Cristiana dei Contadini Salvadoregni” (Feccas) e l’ “Unione dei Lavoratori Agricoli” (Utc), non riconosciute dallo Stato e dunque di fatto illegali: il loro obiettivo è semplicemente, tramite gli scioperi e talvolta l’occupazione di edifici pubblici o di chiese, quello di migliorare le condizioni di vita della massa dei contadini e premere affinché sia attuata una riforma agraria che ponga un limite al possesso delle terre da parte dei grandi latifondisti.
Altre organizzazioni popolari raggruppano gli insegnanti e gli studenti universitari. I loro riferimenti principali sono rappresentati, più che dall’ideologia marxista, dai documenti conciliari e da quelli emersi dalle successive Conferenze dell’Episcopato Latinoamericano.
Dagli inizi degli anni Settanta in Salvador, a fronte di una situazione politica stagnante e sempre in mano ai militari, si forma gradualmente anche una opposizione armata. Le sigle principali sono tre: le Forze popolari di Liberazione (Fpl), l’Esercito rivoluzionario del popolo (Erp), le Forze armate di resistenza nazionale (Farn).
Sia i movimenti popolari che le forze della guerriglia vedono al proprio interno la presenza di cattolici, animati dalla volontà di sradicare le situazioni di profonda ingiustizia presenti nel Paese.
L’oligarchia salvadoregna, costituita da famiglie di origine iberica, ma anche britanniche, olandesi, germaniche, e riunita nel Faro (“Frente de Agricultores de la Región Oriental” – Fronte degli agricoltori della regione orientale) e nell’Anep (“Asociación Nacional de la Empresa Privada” – Associazione nazionale dell’impresa privata), considera il Paese come un proprio possesso e vede nell’attività dei sindacati rurali una minaccia di matrice marxista.
Al sorgere dei gruppi della guerriglia si contrappone ben presto l’organizzazione di formazioni paramilitari repressive e di squadroni della morte: “Unión Guerrera Blanca” è il nome del più efferato gruppo di sicari di estrema destra, mentre “Orden” (Organizzazione Democratica Nazionalista), creata dal presidente Rivera nel 1966, è la milizia privata più diffusa, vero e proprio squadrone della morte al servizio degli agrari nella repressione dei contadini sindacalizzati.
Nel 1980 le varie organizzazioni popolari, che operano a livello sindacale e di coscientizzazione popolare senza far uso della violenza, si riuniscono nella “Coordinadora Revolucionaria de Masas” (Crm), mentre le cinque principali formazioni della guerriglia si fondono nel “Frente Farabundo Martí para la Liberación Nacional” (Fmln).
La presenza del clero nelle organizzazioni popolari e nella guerriglia è piuttosto ridotta. Tuttavia un gruppo di sacerdoti costituisce la “Nacional”, un organismo vicino alle organizzazioni popolari, che intende premere sulla Chiesa affinché scenda direttamente in campo per sostenere un deciso cambiamento politico e sociale.
Le posizioni più radicali in campo socio-politico sono sostenute dai religiosi, per lo più sacerdoti che vengono dall’estero, e dai gesuiti che gestiscono l’UCA (Universidad Centroamericana “José Simeón Cañas”).
Accanto a questi vi sono però anche sacerdoti e vescovi su posizioni più tradizionali e poco inclini all’intervento in campo sociale e politico.
La maggior parte del clero è impegnata in un lavoro pastorale e di promozione sociale, senza dare una coloritura politica alla propria attività.
È in un tale complesso contesto che si inserisce l’opera di Oscar Arnulfo Romero e quella di Marianella García Villas.